Il «Barbiere» in bianco e nero di Pizzi

«Chi auspicava un Barbiere ripulito da quelle incrostazioni comiche di dubbia lega depositate in strati sempre più spessi durante un secolo e mezzo di trazione […] venga qui e sarà soddisfatto».

Questo scriveva Massimo Mila su “La Stampa” del 10 dicembre 1969 riferendosi all’allestimento della Scala che vedeva il debutto dell’edizione critica de Il barbiere di Siviglia curata da Alberto Zedda per l’editore Ricordi, edizione proposta anche l’altra sera per l’apertura della stagione d’opera 2024 del nostro Teatro Regio.

Eleganza e, appunto, “pulizia” paiono anche gli elementi caratteristici della regia che Pier Luigi Pizzi ha ideato (con scene e costumi) per questa messa in scena che ha esordito al Rossini Opera Festival del 2018. Coadiuvato da Massimo Gasparon, curatore anche delle luci, Pizzi ha immerso l’opera che Rossini ha tratto dalla omonima commedia di Beaumarchais in un ambiente caratterizzato da una ricercata essenzialità, dove elementi architettonici e scenografici plasmavano uno spazio sicuramente funzionale, tutto giocato sull’equilibrio tra un bianco intenso – e, all’inizio, addirittura accecante – e un nero che offriva un accurato effetto di contrasto.

Un segno, quello rappresentato dal giuoco bianco-nero, ormai caratteristico delle regie di Pizzi – si pensi solo a I lombardi alla prima Crociata dell’ultimo Festival Verdi – e che, assieme alla presenza di alcuni elementi colorati – il mantello rosso del Conte, l’azzurro e il verde tra gli abiti di Rosina e il viola per Berta – e alcune gestualità francamente ridondanti – il ballo “rap” di Don Bartolo – ha permesso ai protagonisti di questo Barbiere di muoversi con agio animando le differenti situazioni proposte dall’azione drammatica.

Una compagine vocale che ha offerto una buona prova complessiva, restituendo innanzitutto il dovuto rispetto al libretto di Cesare Sterbini attraverso una dizione adeguata e proponendo il Figaro scenicamente e vocalmente prestante di Andrzej Filończyk, la Rosina tratteggiata con ammiccante generosità da Maria Kataeva e il Conte d’Almaviva disinvolto ma non completamente a fuoco sul piano vocale di Maxim Mironov, interprete peraltro già presente nello stesso ruolo dell’edizione pesarese del 2018.

Sempre al primo debutto di questo allestimento si devono espedienti quali la erre arrotata di Don Bartolo e la balbuzie di Don Basilio, personaggi qui ottimamente interpretati rispettivamente da Marco Filippo Romano e Roberto Tagliavini, oltre agli sternuti di Berta (ben tratteggiata da Licia Piermatteo) e Ambrogio (il bravo mimo Amando De Ceccon).

Completava il cast la bella prova di William Corrò (anche lui presente nel 2018) nei panni di Fiorello e di un ufficiale (e del violoncellista in scena).

Il ventisettenne Diego Ceretta – al debutto sia nel titolo sia sul podio del nostro Regio – ha guidato una Filarmonica Arturo Toscanini nel complesso equilibrata e reattiva attraverso una lettura dal tratto sicuramente personale, emerso fin dalla Sinfonia di apertura per certe singolari scelte agogiche e dinamiche e confermata nel corso dei due atti in alcuni momenti segnati ora da un passo più vivace ora più dilatato.

Una cifra interpretativa che, a fronte di un sostanziale equilibrio sul versante vocale, ha però lasciato in ombra quella linfa vitale nutrita di brillante leggerezza che caratterizza questa partitura. Solido il Coro del Teatro Regio ben preparato da Martino Faggiani.

Pubblico soddisfatto e festante, generoso di applausi sia a scena aperta sia a fine serata. (© Gazzetta di Parma)