Nick Drake

«Quando, la notte del 25 novembre 1974, Nick Drake morì per overdose di antidepressivi nella casa dei suoi genitori, aveva 26 anni e tre dischi all’attivo. Aveva vissuto la sua breve esistenza (e la sua ancor più breve carriera di cantautore) nell’ombra, praticamente ignorato dal pubblico e dai media […]. Più di trent’anni dopo, il culto intorno a questo menestrello solitario e incompreso, definito il “Bob Dylan inglese”, è cresciuto a dismisura». Queste parole che introducono il libro “Journey to the Stars. I testi di Nick Drake”, dedicato nel 2007 da Paola De Angelis al cantautore inglese, restituiscono bene l’immagine mitizzata che si è venuta a creare di questo artista.

Ritrovato senza vita – probabilmente per una accidentale overdose di Triptizol, anche se il medico ipotizzò suicidio – nel suo letto dalla madre Molly la mattina del 25 novembre di quarantasei anni fa, in effetti Nick Drake ha subito nei decenni una sorta trasfigurazione mitologica, divenendo una specie di simbolo piegato di volta in volta alle esigenze proprie di questo o quell’immaginario: ora anima delicata e incompresa, ora lacerato poeta intimista, ora musicista decadente e disturbato.

Nato il 19 giugno del 1948 a Rangoon (oggi Yangon) in Birmania, dove suo padre Rodney Drake si trovava per lavoro, Nick arriva nel Warwickshire in Inghilterra nel 1950, in quella che diventerà la casa di famiglia a Tanworth-in-Arden, a sud di Birmingham, trascorrendo l’infanzia serena e agiata di un figlio della borghesia benestante inglese, accudito dall’amore dei genitori, che gli trasmetteranno la passione per la musica, e della sorella maggiore Gabrielle, divenuta in seguito un’attrice cinematografica di successo. Come annota Patrick Humphries nella prefazione della sua biografia dedicata nel 1997 al musicista, «troppo a lungo Nick è stato vittima di un processo di mitizzazione. Alla fine, dei suoi ventisei anni di vita, ventitré furono per lo più felici, sia con la sua famiglia o a scuola e all’università che all’inizio della sua carriera musicale».

Ed è proprio il lascito musicale che rimane, al di là delle riletture e delle proiezioni più o meno simboliche della sua figura, la vera eredità di un artista come Drake, capace di lavorare per sottrazione su una materia creativa in grado di fondere testi levigati, abitati da immagini evocative, e composizioni plasmate attraverso le corde di una chitarra suonata con un approccio personalissimo e innovativo, dalle accordature “aperte” all’uso originale del fingerpicking. I tre album registrati in studio tra il 1969 e il 1972 – “Five Leaves Left”, “Bryter Layter” e “Pink Moon” – rappresentano altrettante pietre miliari della produzione popular e folk del periodo, incisioni capaci di esercitare la propria influenza ben oltre l’ambito artistico contemporaneo. Da Peter Buck dei R.E.M. a Robert Smith dei Cure, fino ad arrivare al pianista jazz Brad Mehldau che omaggia in più occasioni l’artista inglese: si veda, in particolare, l’originale reinterpretazione del brano “Things Behind the Sun”, dall’album “Pink Moon”, incisa nel suo concerto in solo “Live in Tokyo” del 2004.

E proprio a “Pink Moon”, ultimo disco inciso da Drake nello studio della Island Record con il suo fido produttore John Wood– poi seguito da materiale inedito pubblicato postumo – è dedicato il recente lavoro di Ennio Speranza (“Nick Drake e Pink Moon. Una disgregazione”, Galaad Edizioni 2020), che offre un’analisi puntuale degli undici brani che compongono questo essenziale concentrato di musica. Un approccio finalmente libero dalla mitologia, come chiarisce lo stesso Speranza nella sua introduzione: «mi sono innamorato del mistero della musica di Nick Drake, non del mistero della sua vita». (© Gazzetta di Parma)