Stranger than Kindness
Nick Cave, «Stranger than Kindness», il Saggiatore 2020, pag. 276,
Nato come il catalogo della mostra omonima ideata da Nick Cave con Christina Back e allestita alla Kongelige Bibliotek di Copenaghen tra marzo e ottobre scorsi, “Stranger than Kindness” si presenta come un originale documento che raggruppa una variegata selezione di oggetti che restituiscono un ritratto inedito e, se vogliamo, obliquo e a tratti inquietante dell’anima multiforme che contraddistingue il cantautore, compositore e scrittore australiano.
Da poco uscito nella traduzione italiana per i tipi de il Saggiatore, questo volume si offre come una sorta di album di reliquie, un flusso denso e proteiforme di frammenti che tratteggiano una sorta di densa babele biografica, passando dalla foto del 1960 di Cave bambino vestito da cowboy che apre la rassegna di immagini, a variegate e dissacranti icone religiose, fino ad arrivare alla lunga sequenza di taccuini che testimoniano l’intima quotidianità di un artista dall’indubbia indole creativa ispirata e disturbata al tempo stesso.
Un mondo personale ma anche molto “umano”, fatto di disegni, mappe, liste, scarabocchi, fotografie, dipinti, collage, schizzi e bozzetti. Una “storia in frantumi” che racconta la vita e l’anima dell’artista. Lo stesso Cave nella nota che introduce il volume, sottolinea come «ciò che vedete in questo libro vive nel mondo caotico che si forma intorno alle canzoni e nel quale le canzoni albergano. Sono i materiali che nutrono e danno alla luce l’opera ufficiale. […] Questi oggetti non vanno considerati opere d’arte, ma piuttosto la sovrastruttura stralunata e incontrollabile che sorregge nel suo farsi la canzone, il libro, il copione o lo spartito. Sono un sistema di alimentazione fatto di informazioni maniacali e accessorie».
Nella sequenza di immagini e di oggetti più o meno strani, compresi ciocche di capelli femminili e variopinti crocifissi, si compone, come in un ideale e distonico puzzle, la personalità di un artista fortemente segnato da un lato da una vita che non gli ha risparmiato sofferenze – Cave ha perso cinque anni fa il figlio quindicenne – e dall’altro da una sua personale religiosità. Come annota Darcey Steinke nel saggio che accompagna questo volume, evocando la figura di William Faulkner, «nelle canzoni di Nick Cave chiunque può ricevere il dono divino della grazia redentrice, e più guasti si è, meglio è: ci sono l’assassino sulla sedia elettrica (“The Mercy Seat”), il cliente di prostitute (“Jubilee Street”) e persino uno che forse ha sterminato la sua famiglia, ma non è detto (“Song of Joy”). Come nella “strana religione” di Faulkner, a Cave non interessa una facile redenzione da neoconvertiti».
Un racconto per immagini e riflessioni che distilla pagina dopo pagina l’essenza anche un poco autocelebrativa di un artista che pare usare questo “mettersi a nudo” anche come una pratica scaramantica e auto-dissacratoria non esente da una certa velata ironia. Un modo eclettico e originale, insomma, per affrontare il mondo e dire: «Sono qui e questo sono io». (© Gazzetta di Parma)