Tragedia (culturale) del non-ascolto

Il Prometeo di Luigi Nono al Teatro Farnese di Parma

Nella nuova edizione critica a cura di André Richard e Marco Mazzolini è stato proposto a Parma il Prometeo di Luigi Nono, un lavoro che ha visto la sua ultima esecuzione nel nostro paese nel novembre del 2000 nell’abito di Milano Musica. Altro motivo di interesse è rappresentato dal fatto che l’opera noniana è stata allestita nella suggestiva cornice del Teatro Farnese Parma, struttura lignea seicentesca scelta per sostituire in un certo senso l’originale “arca” di Renzo Piano. Operazione senza dubbio coraggiosa, soprattutto per la scelta della Fondazione Teatro Regio di collocare questo titolo a suggello di una stagione lirica che, a Parma in particolare, accoglie un repertorio molto più tradizionale. Per facilitare la fruizione dell’opera e fornire elementi di decifrazione, lo stesso Teatro Regio ha offerto al pubblico un percorso di incontri e approfondimenti che hanno visto anche la partecipazione, tra gli altri, di Massimo Cacciari e Nuria Schönberg Nono, entrambi in sala anche per la “prima” di venerdì sera. L’opera, si sa, è un “fondamentale” del secondo Novecento italiano datata 1984-85, dato anagrafico che ha il vantaggio di avere ancora attivi e operativi i collaboratori di Nono (Alvise Vidolin al live electronics, lo stesso Cacciari curatore dei testi, eccetera) ma paga lo scotto di essere ancorata a quel periodo, sia dal punto di vista ideologico sia da quello espressivo e interpretativo.

L’opera sulla carta – su quella bellissima partitura colorata di segni e indicazioni lasciata dal maestro veneziano – è potentemente suggestiva, ma la restituzione offerta ieri sera è parsa un poco uniforme, soprattutto sul versante del live electronics – qui curato da Vidolin e Nicola Bernardini – e della spazializzazione. Se lo stesso Nono ebbe modo di dichiarare in una sua intervista rilasciata ad Albrecht Dümling nel 1987 (pubblicata da Ricordi nel 2001 nella traduzione di Giampiero Taverna) «non sono d’accordo sulla pretesa che si debba sempre sapere da dove viene un suono. Preferisco la confusione e il disordine», in questo caso appariva tutto molto ordinato, lineare nella successione dei quadri sonori che dal “Prologo” passano alle diverse “Isole” e così via. Un carattere che ha riportato alla mente un fugace appunto lasciato da Massimo Mila sulle pagine della Stampa nell’ottobre del 1988, quando ricordava «quell’impressione di staticità un po’ uniforme che non posso negare di aver provato all’ascolto di Prometeo». Forse una maggiore enfasi nell’impiego della spazializzazione avrebbe consegnato alla materia sonora estremamente sofisticata e pregnante dell’opera una valenza espressiva più dinamica e coinvolgente. D’altro canto è quasi inutile sottolineare come in questi trenta e più anni l’evoluzione dell’elemento elettronico nella musica contemporanea ha maturato un suo percorso che, anche in fase di interpretazione di pagine più o meno recenti, è perlomeno utile considerare, pena la proposta non tanto di una “filologia” ma di una sorta di “archeologia” elettroacustica…continua a leggere… (© Il giornale della musica)