Kiwanuka al secondo album è già fin troppo maturo

Tutto esaurito al Regio di Parma per Michael Kiwanuka, ospitato dal Barezzi Festival

Pensando alla mia impressione una volta uscito dal concerto che Michael Kiwanuka ha tenuto venerdì scorso al Teatro Regio di Parma: – uno degli appuntamenti clou di un Barezzi Festival che dal 14 al 19 novembre ha disseminato in vari luoghi della città e provincia emiliana la sua undicesima edizione – mi è tornato alla mente il titolo di un libro di Lester Bangs apparso in Italia una decina di anni fa, nell’ambito di una serie di volumi dedicati al critico statunitense dalla casa editrice Minimum Fax. Il titolo era: Impubblicabile!

Non che il clima che si è respirato l’altra sera al Regio abbia qualcosa a che fare con il contenuto degli scritti di Bangs raccolti in quelle pagine, ma un vago imbarazzo mi ha fatto pensare a quella definizione, una sorta di monito per le righe che sto scrivendo. Intendiamoci, il concerto è stato un successo, teatro tutto esaurito, pubblico caloroso – applausi anche per l’apertura di serata affidata a Carmine Dileo – e trascinato da una formazione strumentale che, oltre alla voce e alla chitarra del cantautore di Muswell Hill, schierava una chitarra ritmica (ma all’occorrenza anche solista), un basso, una tastiera, una batteria e un set di percussioni, queste forse superflue nell’economia del sound che ha connotato la serata.

Dei due album realizzati da Kiwanuka, la scaletta in questa occasione si è concentrata soprattutto sul più recente Love & Hate, a partire da una “One More Night” che ha segnato con passo coinvolgente l’atmosfera di avvio serata.

Brano dopo brano il talento dell’artista londinese, già testimoniato dai lavori in studio, si è confermato anche in questa dimensione live, offrendo una miscela musicale che da più parti è stata ricondotta a una serie di “padri nobili” che vanno da Van Morrison a Marvin Gaye, dai Pink Floyd ai Radiohead (questi ultimi anche solo per aver aperto il loro concerto a Monza la scorsa estate), per arrivare a Gil Scott-Heron, Bill Withers e Ben Harper. Una miscela di stili e di caratteri che può apparire perlomeno eclettica, ma che Kiwanuka riesce a metabolizzare con personalità, facendo della sua musica una reinvenzione continua di qualcosa che viene da un passato nutrito di mille ascolti diversi, da mille e una fonte che è ora soul, ora rock, ora psichedelia, ora blues. Un’attitudine che mi ha ricordato – dal punto di vista strettamente musicale – l’eclettismo stilistico di Lenny Kravitz, specie in brani distesi sulle corde di una chitarra al tempo stesso morbida e ruvida come “The Final Frame”… continua a leggere… (© Il giornale della musica)