Questioni di FUS
Pensando al recente (ed ennesimo) taglio del Fondo Unico per lo Spettacolo – vale a dire il principale investimento pubblico per questo settore nel nostro Paese – mi sono venute alla mente alcune considerazioni che raccolgo qui in ordine sparso. Guardando indietro nel tempo ricordiamo come l’ambiente culturale americano si trovò a fare i conti con la crisi economico-sociale avviata nel ’29. Il nuovo corso “roosveltiano” comportò tra l’altro significativi mutamenti nel contesto musicale e teatrale: alcune compagnie teatrali, infatti, sorsero grazie all’intervento statale, altre preesistenti ricevettero sovvenzioni. Come ricorda bene Sergio Perosa nel suo “Storia del Teatro Americano”: «nel decennio del Trenta, seguì il fenomeno, insolito per la scena teatrale americana, del Federal Theatre Project […]. Si disse che fosse istituito più per creare posti di lavoro che non per dare impulso al dramma: ma pur servendo egregiamente al primo scopo, ebbe il merito di vivificare una produzione stagnante e stentata». Ma, si dirà, erano altri tempi, un altro mondo. Certamente. Allora cambiamo radicalmente panorama, cercando nel mondo economico-industriale qualche esempio di “buona pratica” nostrana. Il pensiero corre subito alla figura di Adriano Olivetti il quale, nel bel mezzo di una crisi economica internazionale che ha investito la nostra industria nel 1952, invece di tagliare costi e licenziare, così descrive la sua scelta nel volume “Città dell’uomo”: «[instaurammo] immediatamente una politica di espansione più dinamica, più audace. […] In Italia, in un solo anno, furono assunti settecento nuovi venditori, fu ribassato il prezzo delle macchine, furono create filiali nuove […].» In quello stesso ’52, inoltre, il MoMA di New York per la prima volta decide di ospitare la Olivetti con i suoi prodotti, significativo riconoscimento per un’azienda che, come ricorda Paolo Bricco nel suo libro “Olivetti, prima e dopo Adriano”, offriva ai suoi dipendenti «la musica e l’arte nella pausa del pranzo». Anche in questo caso, si dirà, si tratta di un’altra epoca e poi cosa c’entra l’economia, l’industria con la cultura? Bene, allora veniamo al recente rapporto preparato per conto della Commissione Europea dalla Eenc, la Rete europea degli esperti sulla cultura e pubblicato lo scorso settembre. Un rapporto commissionato da Bruxelles nel quadro della preparazione del bilancio multiannuale dell’Ue 2014-2020 (proprio quel bilancio che è costato qualche giorno fa una notte insonne a Monti, Cameron, Merkel & C.). Per Bruxelles la cultura italiana è una priorità perché vale parecchio anche in termini economici: «in linea di principio – si legge nel rapporto – se vi fosse un serio tentativo di dare alla cultura la giusta priorità nell’agenda politica del paese, vi potrebbe essere una seria possibilità che i settori culturali e creativi diano un importante contributo nel ridisegnare la tanto agognata formula per una nuova crescita per l’Italia». E ancora «al momento il paese non ha una strategia nazionale, per quanto generale o provvisoria, per lo sviluppo del suo settore culturale e creativo». Ecco i dati del documento: -35% di investimenti in cultura tra il 2008 il 2011, per arrivare allo 0,2% del Pil. Negli anni Cinquanta e Sessanta – ai tempi di Adriano Olivetti, quindi – era quattro volte tanto. «Il principale ostacolo a una svolta – prosegue il rapporto – è la tendenza della dirigenza politica italiana a usare la cultura come una misura anticiclica e come ammortizzatore sociale, o come aree protette per la creazione di rendite di posizione», costituendo «sacche di privilegi ed inefficienza nei settori culturali». Ed eccoci arrivati alla sconfortante mancanza di competenze e – pensando al protagonista del romanzo di Musil – di “qualità” di una classe dirigente (politici, tecnici o manager che siano) la quale, a prescindere dal settore e dalla problematica affrontata, opera tagli più o meno lineari ignorando qualsiasi analisi di merito, perseguendo un solo obiettivo: l’autotutela e il mantenimento dello status quo. Un dato che fa il paio con il fatto che questi tagli vengono indirizzati solo in una direzione, e cioè verso il basso: vedi la ridicola vicenda della presunta riduzione del numero dei parlamentari o del taglio delle Province, saltato per trasversali e intoccabili interessi politici, o ancora la sentenza della Corte Costituzionale – per il MiBAC causa diretta, assieme alla famigerata spending review, del lievitare del taglio al FUS da 7 a 20 milioni – che nell’ottobre scorso ha ordinato il reintegro dei tagli agli stipendi dei dirigenti pubblici, che ipotizzava una riduzione del 5%, ma solo fino al 31 dicembre 2013, della retribuzioni tra 90 mila e 150 mila euro, e del 10% la parte eccedente i 150 mila euro. Il valore dei tagli sarebbe stato di circa 23 milioni all’anno e il loro annullamento ha registrato la grande soddisfazione di Barbara Casagrande, segretario generale dell’Unadis – Unione nazionale dei dirigenti dello Stato – che ha sostenuto come «magistrati, prefetti e dirigenti pubblici non devono essere i soli a pagare i conti della crisi». I soli a pagare la crisi? Veramente sembrano i soli – assieme agli apparati politici nazionali, regionali e provinciali – a NON pagarla questa crisi, continuando a NON rispondere mai dell’inefficienza e dell’inefficacia del proprio operato. (© il giornale della musica)